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Archivio Autori: Gabriele Ferri

Se i Sims vanno su Facebook…

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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Subito dopo il lancio, la versione facebookiana di The Sims ha riscosso un enorme successo, ma a distanza di qualche mese si è registrato un significativo calo di interesse. L’articolo propone una possibile lettura di questo fenomeno, partendo da alcune caratteristiche della serie The Sims e mostrando come il gioco si sia modificato, sposandosi con le logiche 2.0 di Facebook, per diventare più social e in real time.
The Sims Social 1, lanciato su Facebook da Electronic Arts il 9 agosto 2011, ha riscosso da subito un (aspettato) successo: dopo poco più di un mese dal lancio, la versione social del celebre simulatore di vita vantava oltre sessanta milioni di utenti attivi mensilmente e più di dieci milioni di utenti attivi al giorno, distinguendosi come l’applicazione con il più elevato tasso di crescita settimanale, oltre che come il miglior browser game dell’anno 2. Sebbene tutti credessero che il successo del gioco avrebbe continuato a crescere, a distanza di quattro mesi The Sims Social 3 ha subìto un (inaspettato) calo di interesse da parte degli utenti di Facebook: il 10 gennaio 2012 gli utenti attivi mensilmente sono stati poco più di ventiquattro milioni e quelli attivi giornalmente poco più di quattro milioni.
Perché l’enorme successo iniziale e il calo di interesse attuale? Dare una risposta esaustiva non è di certo facile: i fattori che influiscono sul successo (o l’insuccesso) di un’applicazione sono talmente numerosi e intrecciati tra loro che è difficile disegnarne un quadro completo, tanto più se si considera che la vita dei contenuti virali è, per natura, altamente imprevedibile.
Vorrei però proporre una possibile lettura del fenomeno, partendo da alcune caratteristiche della serie The Sims e mostrando i cambiamenti più significativi che il gioco ha subìto sposandosi con le logiche 2.0 di Facebook.

The Sims: all’origine del successo
Una buona fetta del successo di TSS deriva dalla popolarità del marchio The Sims, serie videoludica che per oltre un decennio è riuscita a mantenersi in vetta alle classifiche di vendita, raccogliendo 140 miliardi di fan in sessanta nazioni che parlano ventidue lingue diverse. Con i suoi tre titoli principali, più di venti espansioni, cinque spin-off e numerose versioni per le più svariate piattaforme, The Sims 4 è senza dubbio il più popolare e prolifico simulatore di vita della storia.
Dal mio punto di vista, la formula vincente di TS è composta di tre ingredienti principali, amalgamati tra loro in maniera magistrale: “interattività, personalizzazione e creatività”.
TS è un gioco molto “interattivo”: il giocatore ha un ampio ventaglio di “possibilità di azione” – varie e in continua crescita 5 – e, poiché gli obiettivi di gioco rimangono per lo più impliciti, sente di poter fare (quasi) ciò che vuole nel mondo del gioco. TS appare come “un’opera aperta, socchiusa, spalancata” 6 capace di generare micro-mondi che il giocatore può vivere e plasmare quasi come un dio.
In TS l’interattività si traduce in un altro importante fattore di successo: le ampie possibilità di personalizzazione. Il giocatore può costruire (e de-costruire) a piacimento i suoi avatar e l’ambiente materiale e sociale in cui vivono. Ogni partita a TS è potenzialmente diversa da qualsiasi altra, non solo perché gran parte degli eventi che accadono nel mondo del gioco dipendono dalle scelte del giocatore, ma anche perché il giocatore può “ammobiliare” tale mondo, creando o selezionando personaggi e oggetti, con possibilità combinatorie potenzialmente infinite.
In TS interattività e personalizzazione diventano a loro volta stimoli per la creatività del giocatore, che è spinto a costruire micro-mondi vari e in continua trasformazione (combinando gli elementi disponibili in modo più o meno originale), nonché a creare micro-storie potenzialmente avvincenti 7. Il potenziale creativo di TS, intrinseco al suo gameplay dinamico, è stato amplificato dagli editor, che hanno stimolato la produzione di contenuti user-generated e la nascita di affollate comunità di fan desiderosi di condividere e scambiare le proprie creazioni.
Sebbene TS sia un gioco nato per il single-player, fin dalla nascita possedeva già, in nuce, una forte vocazione sociale: in-game il gioco simula interazioni sociali relativamente complesse e dinamiche; off-game le possibilità di personalizzazione e di creazione offerte dal gioco stimolano la nascita di community che condividono contenuti user-generated.
È forse questa vocazione sociale che spinse Electronic Arts a lanciare nel 2002 un Massively Multiplayer Online Game basato su TS: il fallimentare The Sims Online 8, che dopo sei anni fu ufficialmente chiuso. Forse i tempi erano prematuri, o forse la versione online del gioco non era in grado di adeguarsi alle dinamiche del web; di certo ciò che EA non era riuscita a conquistare con The Sims Online, lo ho conquistato sbarcando su Facebook con TSS.

The Sims Social
La prima volta che ho giocato a TSS, come fan di vecchia data di TS, sono rimasta un po’ spiazzata: la versione facebookiana di uno dei miei giochi preferiti mi è apparsa da subito “meno interattiva e dinamica” della versione originale. È ammesso il controllo di un solo avatar; gli obiettivi ludici sono più espliciti e vincolanti (il gameplay è organizzato in missioni e prevede diversi sistemi di punteggio); la libertà di azione è ridotta (le risorse necessarie per compiere azioni in-game sono molto più numerose 9); le possibilità di personalizzazione sono limitate, soprattutto per quanto riguarda la costruzione della casa.
A prima vista questi cambiamenti possono apparire come punti di debolezza di TSS, ma a ben guardare sono il prezzo da pagare per adeguarsi alle dinamiche 2.0 del social network più popolare del mondo. Entrando su Facebook, il “simulatore di vita quotidiana e di relazioni sociali” è diventato ancora più social e in real time.

The Sims diventa social
Cosa accade se un gioco che simula relazioni sociali tra personaggi virtuali si incontra con una piattaforma che crea e alimenta relazioni sociali tra persone reali? In TSS ogni avatar è legato a un profilo su Facebook, che a sua volta è collegato a una persona che lo gestisce. Questo significa che ogni volta che il nostro sim intrattiene relazioni sociali con altri sims, noi interagiamo indirettamente con le persone reali che controllano i profili dei nostri “vicini”.
Si crea così un intreccio complesso tra due livelli – le relazioni in-game (fra i sim) e le relazioni off-game (fra gli amici di Facebook) – livelli che possono influenzarsi a vicenda. Per fare un esempio un po’ estremo: se uno dei miei vicini in TSS, oltre ad essere un mio amico di Facebook, è anche un mio ex nella vita reale, sarà problematico decidere di intrattenere una relazione romantica con il suo sim, tanto più se il mio attuale ragazzo è su Facebook e può leggere sulla mia bacheca i feed del gioco. Caso estremo, che però mostra bene come l’intreccio tra relazioni in-game e off-game sia uno dei punti di forza di TSS: giocando posso ri-definire relazioni sociali “reali”, posso rafforzare relazioni di amicizia già esistenti, indebolirle o modificarle; così come posso sfruttare le relazioni di amicizia off-game per incrementare le mie relazioni in-game.
TSS è social anche perché sfrutta le potenzialità “virali” di Facebook attraverso un articolato sistema di notifiche e feed. Non solo ogni volta che ottengo un risultato 10 posso condividere la notizia sulla mia bacheca, ma per concludere alcune missioni sono addirittura obbligata a farlo. Sempre nell’ottica del doppio livello di relazione, condividere una notizia sulla bacheca ha i suoi pro e i suoi contro: permette a noi e ai nostri amici-vicini di ottenere risorse utili per il gioco, ma può anche risultare fastidioso, soprattutto per gli amici che non giocano a TSS. In ogni caso rende il gioco potenzialmente virale, sfruttando la forza del passaparola.
Insieme a notifiche e feed, anche i punteggi e le missioni contribuiscono a rendere social il gioco, poiché innescano meccanismi di sfida e di collaborazione con gli amici. Da un lato, poter conoscere i risultati raggiunti dai nostri amici-vicini ci spinge a migliorare la nostra performance in un’ottica competitiva; dall’altro lato, per migliorare la nostra performance dobbiamo chiedere aiuto agli altri giocatori, e se aiutiamo gli altri giocatori otteniamo bonus e vantaggi. Come nel web 2.0, anche in TSS vince la logica del dono, che non contraddice – ma interagisce con – una logica di competizione.

The Sims diventa (quasi) in real time
A differenza dei classici giochi multiplayer online, le interazioni sociali in TSS non sono sincrone: le interazioni con i vicini avvengono principalmente off-game, attraverso notifiche e messaggi, mentre quando interagiamo in-game con un sim, non è il nostro amico a controllarlo.
Ciò nonostante TSS è saldamente agganciato al “tempo reale”: l’event time (il tempo degli eventi del gioco) e il play time (il tempo del giocatore che gioca) sono talmente intrecciati tra loro che l’uno arriva ad invadere l’altro.
Poiché i punti energia si rigenerano al passare del tempo “reale” e poiché l’event time scorre anche quando il giocatore non sta giocando, TSS crea una sorta di tempo parallelo, un tempo “duro” (cioè non modificabile a piacimento) e “persistente” (cioè che scorre indipendentemente dalla presenza del giocatore). Questo tempo duro e persistente influenza il play time: le sessioni di gioco sono tendenzialmente brevi (quando i punti energia si esauriscono, il giocatore tende a interrompere la sessione), ma molto frequenti (per stare dietro al gioco è necessario giocare almeno una volta al giorno).
Inoltre il mondo del gioco si trasforma in relazione al tempo sociale: ad esempio in prossimità di Halloween le missioni acquistano un sapore horror e i sim si travestono, mentre durante le vacanze natalizie l’ambiente si ricopre di neve e le case si riempiono di addobbi e alberi di Natale. E così il gioco diventa ancora più in real time.

Se il gioco cessa di essere un gioco
Se TSS si è sposato così bene con le dinamiche 2.0 di Facebook, perché una crescente fetta di giocatori sta abbandonando il gioco? In parte dipende dalle modalità di distribuzione: poiché il gioco è gratuito, molti lo provano per curiosità e poi, se non sono soddisfatti, lo abbandonano. Ma mi sembra che la dimensione sociale e temporale di TSS, oltre ad aver contribuito al successo, abbia anche paradossalmente influito sull’abbandono del gioco.
Chi non diventa addicted, infatti, rischia di provare un senso di frustrazione. Chi non vuole, o non può, adeguarsi alla dimensione temporale del gioco – che richiede un impegno costante e frequente – verrà irrimediabilmente superato dagli altri giocatori, che tenderanno ad interagire sempre meno con il suo sim.
Le dinamiche sociali (competizione e collaborazione) e temporali (tempo duro e persistente) innescate da TSS rischiano di trasformare il gioco in un “impegno” di tempo e di energie, più che in un passatempo; in un’attività più vicina all’ambito dei doveri che a quello dei piaceri. E se il gioco diventa un lavoro… cessa di essere un gioco.

– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –

 

Categoria: 1/2012 Critical Notes, 1/2012 Games | Tags: Agata Meneghelli

Prosumer e star dei videogiochi

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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Su molti server di World of Warcraft 11 ci sono toon (“personaggi” pilotati dal giocatore) “famosi”. Il caso più significativo è quello di Kungen (cioè “re”, toon del giocatore svedese Thomas Bengtsson 12, leader prima dei Nihilum poi di un’altra celebre gilda, Ensidia. Questa peculiare fama settoriale è certamente legata alla struttura degli MMORPG, al loro essere basati su una specifica forma di socializzazione. Tuttavia ci si potrebbe chiedere: il giocatore capace di guidare un suo toon fino alla “celebrità” è un “produttore”? Un prosumer? Certo, non è “produttore” del software. Qui è in questione qualcosa di molto diverso.
L’entusiasmo col quale non pochi studiosi salutarono l’apparente “trionfo” del prosumer sembra essersi molto raffreddato. Come si sa, la questione è relativa al diffondersi di una nuova figura: il “consumatore” divenuto anche “produttore”. Fra i vari neologismi inventati per indicare questa sorta di centauro, ha avuto la meglio appunto il termine prosumer (sincrasi di producer e consumer), diffondendosi più di altri vocaboli, come pro-am (producer + amateur). Il successo della parola è legato all’influenza di Alvin Toffler, per il quale l’attività dei prosumer caratterizza la “terza onda”, seguente a quella degli old media e a quella dei mass media 13.
Il prosumer è certamente il protagonista del cosiddetto Web 2.0. Su YouTube, su Facebook, su Wikipedia ecc. è davvero incalcolabile il numero dei fruitori che si fanno anche produttori di contenuti. Si tratta di un fenomeno inatteso, che pone una molteplicità di problemi. Ad esempio, una questione specifica riguarda una possibile minaccia per il sistema dell’arte, che può apparire del tutto indifeso rispetto al dilagare di questa produzione. Raramente è possibile rintracciarvi qualità, competenza, ispirazione e, in definitiva, “ricerca”; tuttavia, le opere sembrano naufragare nell’oceano di milioni se non miliardi di immagini.
Un altro esempio è la questione sollevata recentemente da alcuni interpreti, fra cui Wu Ming. In sintesi: il prosumer sarebbe un lavoratore sfruttato. “Sei uno degli oltre settecento milioni di utenti che usa Facebook? Bene, vuol dire che quasi ogni giorno produci contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali. Sei parte del general intellect di Facebook. Insomma, Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?” 14. E sulla questione sono possibili opinioni perfino opposte. Ad esempio: “gli esiti comici dell’argomentazione di Wu Ming discendono da un errore. L’errore è chiamare “pluslavoro”, o in generale “lavoro”, ogni forma di generazione di contenuto da parte degli utenti su Internet. Ora, questo errore non è innocente. L’articolo di Wu Ming partecipa alla costruzione di un mito politico, il mito del proletariato cognitivo. In sintesi: l’operaio della conoscenza, traducendo poesie o pubblicando le foto delle sue vacanze su Internet, si troverebbe sullo stesso piano (o più esattamente, entro la stessa classe) dell’operaio vero e proprio, come quello che gli ha assemblato il computer” 15.
Qui è in questione anche la parcellizzazione molecolare del mercato, secondo il principio della cosiddetta “coda lunga”. La produzione digitale (in rete, ma anche o soprattutto quella fisica, legata a supporti cartacei, a DVD, ecc.) permette la “pubblicazione” di un numero estremamente ridotto di copie di un testo, di un brano musicale, ecc. Al limite: una copia. Si modifica così del tutto il rapporto tradizionale fra investimento sulla produzione culturale, distribuzione, vendita.
Ma dicevo che molti entusiasmi sembrano essersi raffreddati. Quali? In primo luogo quelli legati alla speranza (o forse alla velleità) che l’intervento del prosumer consenta una sorta di redenzione dei prodotti dell’industria culturale. Forse l’autore che in termini più espliciti ha manifestato questa speranza è Henry Jenkins (si sa, in Italia ha avuto grande diffusione il suo Cultura convergente 16). La provenienza “dal basso” dell’intervento dei prosumer appare un fatto in sé positivo – anche perché i prodotti dell’industria sembrano essere considerati come qualcosa di “naturale” che viene poi elaborato dagli utenti. Ad esempio, il folklore e i materiali filmici di Star Wars sono considerati come dati di fatto neutrali, e di cui in fondo importa poco: conta l’azione (metalinguistica) degli appassionati, conta la produzione di fan fiction derivata da Star Wars. Il problema della qualità dei prodotti dell’industria appare così neutralizzato. Se si tratta di materiali scadenti, la produzione di secondo grado degli utenti in ogni modo li sottoporrà a un lavacro purificatore.
Questo carattere “redentore” della produzione dal basso è il presupposto implicito di molte analisi correnti: per dirne una, non è difficile coglierlo nell’attesa del “liberatorio” sorpasso di Internet sulla televisione. L’argomento ha una sua ragione d’essere, e però è necessario ricordare che i prosumer possono avere atteggiamenti molto diversi. Possono essere interessati specificamente al prodotto che ri-utilizzano, oppure all’uso di quei materiali per scopi eterogenei (per mettersi in mostra, per dimostrare una tesi, ecc.).
Ma che rapporto c’è fra tali fenomenologie (e fra le numerose altre qui non citate) e l’ambito specifico del videogioco? A prima vista forse nessuno. Il prosumer di cui abbiamo fatto cenno è un “utente-produttore” di materiali culturali creativi e formalizzati. In altri termini, il prosumer fotografo realizza fotografie, il prosumer scrittore scrive romanzi, il prosumer che realizza fan fiction è un regista sui generis, e così via. Applicato all’ambito dei videogiochi, tale modello chiamerebbe in causa gli appassionati capaci di produrre videogiochi. E certamente qui si sfiora un tema di straordinaria importanza, giacché spesso si ha a che fare con l’intervento creativo di non professionisti: basti pensare al fenomeno delle patch e degli add-on, o alla moltitudine di mod più o meno elaborati. Per non parlare dei machinima.
Ma il prosumer e l’artista sono analoghi, in quanto produttori? La domanda può apparire insensata. O meglio, la risposta può apparire legata essenzialmente a nozioni come quella, già citata, di “qualità”. La produzione del prosumer spesso è scadente, impacciata, approssimativa; ma sembra difficile non attribuire un giudizio positivo all’aliquota sia pure ridotta di materiali appunto “di qualità”. Una foto riuscita lo è sia nel caso in cui il fotografo sia celebre, sia nel caso in cui sia un oscuro appassionato. Del resto si tratta di una fenomenologia ricorrente nell’ambito dell’arte contemporanea. Si potrebbe perfino allargare la nozione di prosumer fino ad includervi i creativi non ancora inseriti nel sistema dell’arte (ad esempio perché giovani), o coloro che per un motivo o per un altro si defilano. Potrà risultare straniante dirlo, ma in fondo non erano prosumer Cézanne e Van Gogh? Non lo era Francesca Woodman?
Questa argomentazione è però legata ad un punto di vista orientato all’utente. Per noi interpreti ciò che conta è in primo luogo la concreta formalizzazione con cui possiamo avere un rapporto. Cosa importa, in fin dei conti, per noi, se le immagini, le poesie o i romanzi con cui ci confrontiamo siano prodotti da un professionista o da un prosumer?
Ma una caratteristica essenziale del videogioco è il coinvolgimento performativo del giocatore (che qui chiamerò perciò performer). Il videogioco non è (solo) una narrazione, non è (solo) uno spettacolo, non è (solo) una configurazione multimediale, bensì è una narrazione che diventa spettacolo mediante l’intervento attivo del performer.
Rispetto a quanto detto finora, qui si mostra qualcosa di radicalmente diverso. Dal punto di vista soggettivo, il prosumer non è un artista, uno scrittore, un fotografo, ecc. Essere professionisti in quei campi implica un modo di essere e di produrre che il prosumer nonostante tutto non condivide. Il pittore dilettante non verrà invitato a Documenta, il romanziere prosumer non pubblicherà con una major, il guru che dispensa le sue perle di saggezza su Facebook dovrebbe pur ricordare che i suoi lettori saranno poche decine o perfino unità, spersi da qualche parte nella “coda lunga”…
Cosa avviene invece nell’ambito dei videogiochi? Visitando forum e chat dedicati, ci si rende subito conto del fatto che atteggiamenti diffusi e di solito buffi e/o fastidiosi rivelano qualcosa di profondo. Mi riferisco in primo luogo alle vanterie (dette a volte epeen). La vanteria, ovvero la ricerca del cool, caratterizza molti altri ambiti: si pensi a quanto avviene in quasi ogni discussione sul calcio. Ma nel caso dei videogiochi la vanteria non riguarda i propri campioni (calciatori, ciclisti o politici che siano), bensì si concentra sullo stesso performer. Il “campione” non è una figura surrogata, proiettiva; viceversa, è semmai un modello su cui misurare le proprie prestazioni.
Ritorniamo a Kungen. Dal punto di vista della sua funzione simbolico/sociale non è paragonabile a Messi o a Vettel. Non è separato da un’invalicabile distanza rispetto al fan. L’appassionato di calcio non scende in campo nella Champions League, l’appassionato di automobilismo non guida una monoposto. Al contrario, qualunque performer è (almeno in linea di principio) nelle stesse condizioni di Kungen e degli altri personaggi “leggendari” dell’ambito del videogioco.
Sebbene senza introiti milionari, sequenze di divorzi e di ricoveri in rehab, diamanti nei denti e limousine, ogni performer potenzialmente è una star.

– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –

Categoria: 1/2012 Critical Notes, 1/2012 Miscellanea | Tags: Giuseppe Frazzetto

La forza in comune dei videogiochi. Giuseppe Frazzetto, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana, Mimesis Edizioni, 2011

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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Giuseppe Frazzetto insegna storia dell’arte contemporanea e discipline afferenti le nuove forme mediali presso l’Accademia di Belle Arti di Catania ed è fra i pochi in Italia ad accostare organicamente all’approccio umanistico nei confronti delle arti contemporanee, quello al videogioco. Questi interessi si esercitano chiaramente nel testo Molte vite in multiversi, nel quale Frazzetto si occupa di videogiochi come in Per una teoria dell’IDHE. Introduzione ai videogiochi 17, del quale questo libro è al contempo un’espansione e una contrazione. Una contrazione nel senso della riproposizione dei nuclei teorici essenziali, e una espansione giacché il videogioco in questo testo non è il centro dell’argomentazione, quanto una presenza costante che emerge di quando in quando all’interno di una teoria dell’arte generale (o, più nello specifico, delle “nuove forme dell’arte”). I videogiochi si collocano in questa impalcatura organicamente e in maniera non dissimile dalle altre forme più convenzionalmente accettate come “artistiche”.
Da questa breve introduzione si può inferire quanto il testo di Frazzetto afferisca alla dimensione estetologica più che al campo dei game studies. Dunque è con questo spirito che bisogna approcciarsi al libro di Frazzetto: con la consapevolezza di leggere un testo che non vuole confrontarsi con gli studi specialistici fin qui sviluppati sui videogiochi, quanto piuttosto illustrare le molte forme dell’arte contemporanea, cercando di individuare alcuni operatori concettuali che riassumano lo spirito e facciano ordine, o meglio costituiscano dei punti di riferimento (delle possibili “categorizzazioni”), in una situazione frammentata.
Una delle tesi forti del libro è proprio la moltiplicazione e frammentazione delle identità nell’arte e nell’estetica contemporanee: identità frantumate e molteplici nel versante dei testi a disposizione dei fruitori, ma anche dei mondi finzionali che si costruiscono. Frazzetto sostiene che ci si trovi ormai in una vera e propria società del remix, del mash-up, una realtà intensiva che è rimescolamenti di elementi fisici ed “e-mmaginali” (sic).
L’autore parla di Entreverse, ovvero un “multiverso delle esperienze connesse all’intrattenimento”, di cui il videogioco sarebbe parte essenziale. Egli ci ragguaglia sulla società “e-mmaginale”, riferendosi all’incrocio fra immaginazione, visualizzazione e realtà delle relazioni che si intrattengono nel mondo. Quella dell’Enterverse (entertainment universe) è una società in cui tutto ormai è estetizzato. Non si scorge più un senso predominante – il visuale si accompagna all’orale e all’aptico – e i media generano “eventi”. L’estetizzazione diventa quasi “anestetizzazione”: molti stimoli, tutti di ordine estetico, nei quali le strutture gerarchiche si perdono, riducendo tutto ad un valore comune.
Quanto è evidente già da queste poche righe di descrizione, è la vocazione “nomotetica” di Frazzetto, piuttosto destabilizzante per chi è abituato ad anni di critica prima, e teoria accademica dei videogiochi poi. Frazzetto rinomina, usando diffusamente neologismi, alcune delle più assestate categorie: il videogioco diventa IDHE (Interactive Digital Hybrid Entertainment), l’avatar è definito toon, il giocatore performer. Alla base di questo lavoro ridefinitorio sta la volontà di delucidare con maggior precisione la funzione delle nozioni rinominate pur percorrendo, consapevolmente, il rischio, in assenza di glossario, di disorientare il lettore a confronto con un metalinguaggio del tutto interno al testo.
Ci soffermeremo solo sulle parti dedicate al videogioco del libro, ricchissimo di stimoli e penetranti illuminazioni. Nella parte iniziale del testo Frazzetto riporta i risultati di una ricerca sul campo sulle relazioni sociali che si formano nel giocare un MMORPG, in particolare World of Warcraft 18. Assistiamo ad una descrizione, di grande dettaglio e precisione, stilisticamente nel solco degli studi di Jenkins sulle fandom, delle dinamiche del gioco. Seguono una serie di analisi, che possono essere ascritte al metodo socio-antropologico sul maschilismo e razzismo dei giocatori, sulla “socializzazione senza contatto”, sulla costruzione di un sistema gerarchico e di regole, sulla costruzione del senso di appartenenza nelle gilde, sulla mancata opposizione Noi Vs Altri, sulla ben nota dipendenza suscitata dal gioco, sulla corrispondenza fra apparenza (il “vestiario”) e realtà, sulla corrispondenza fra esistenza e consumo.
WoW, come altre forme della cultura di massa contemporanea, sarebbe l’esplicitazione della pulsione alle “Molte Vite”, o alla percezione di un ambito vitale “ulteriore” della contemporaneità. In seguito Frazzetto accennerà all’identità segreta del giocatore del MMORPG, assumendola come espressione dell’identità tipica della mash-up life. Tuttavia si tratterebbe di un’identità “volontaria”, non imposta dalla necessità di cambiare prospettiva e che suscita con una sottile imposizione la modernità (intesa come sistema totalizzante e para-totalitario). Tale “mascheramento” nel gioco sarebbe un modo per osservare “obliquamente” e, in certo modo, per opporsi da singolo alla forza totalizzante del collettivo.
Il nuovo mondo estetico è quello della deep remixability 19, quello dove ogni oggetto è remixato, dove si sviluppa una passione per la “collezione” di oggetti, ciascuno di quali assume un “valore” (una dimensione estetologica), ma ciascuno dei quali, di conseguenza, ha la medesima natura e qualità dell’altro. Riferendosi proprio ad un videogioco, Planescape Torment 20, Frazzetto sostiene che ogni oggetto della contemporaneità (un SUV, un telefonino, una Action Figure derivata da un videogame) sia un “portale”, un rizoma che connette quell’oggetto specifico a infiniti altri. Il singolo, attraverso il collezionismo e l’estetizzazione di ogni oggetto, introietta il collettivo e dunque il suo assoggettamento ad esso. Tutto è disponibile ed accessibile e l’immersione nella fantasmagoria delle merci corrisponde alla dispersione del soggetto. Tutto è mescolato (Frazzetto accenna alla promiscuità dei crossover a sostegno di questa tesi, individuando come esempio emblematico Kingdom Hearts 21) e quanto si percepisce è il desiderio del soggetto, impossibile da realizzarsi, di ricondurre tutto ad unità.
Un concetto che percorre per intero il teso di Frazzetto è quello di “incomune”. La contemporaneità e le sue espressioni sarebbero al contempo qualcosa di noi tutti (in comune) e qualcosa di estraneo (incomune). I videogiochi sono uno dei sintomi dell’incomune: non esistono o vincoli al visibile, tutto è percepito come “comune”, “qualsiasi”, pur nella difformità. Norma e abnorme, visto e inimmaginabile si confondono. L’immagine “feroce”, quella della tanto deprecata violenza nei videogiochi non ha nulla di diverso da una foto di Diane Arbus o di Serrano: tutti questi prodotti estetici dimostrano la “visibilità del mostruoso”.
Nella seconda parte del testo Frazzetto si sofferma sul videogioco come forma mediale, più che su giochi singoli, e sul rapporto fra videogioco e giocatore. L’autore accosta esplicitamente il videogioco all’arte e alla filosofia, individuando in queste forme culturali delle attività improduttive che, tuttavia, si sceglie di esercitare liberamente e che funzionano come oppositive alle logiche del collettivo (sono attività di “spreco”, fin quando non entrano nel circuito del mercato). Il videogiocatore come il pensatore o l’artista, pur non essendo fuori dalla società, resistono alle logiche del collettivo fino ad un certo stadio.
Frazzetto introduce il discorso sul videogioco come medium all’interno di un quadro riassuntivo delle teorie di Caillois, Huizinga e Turner. Sostiene che un performer/videogiocatore si trova al contempo in un luogo immaginario e generico, e in una localizzazione reale: è lui stesso a compiere le azioni necessarie. L’avatar/toon è il mediatore fra il singolo e una rete di altri singoli, informazioni, notizie, emozioni. Il videogioco non è solo uno spettacolo da osservare, ma un’attività da compiere. Il rapporto toon/performer è un rapporto simbiotico con uno strumento – simile a quello samurai/katana -. Il perfezionamento dell’avatar è possibile solo attraverso l’attività del videogiocatore interna al videogioco. Gli “strumenti” (gli avatar nel gioco) sono portali attraverso cui si giunge a una percezione peculiare di se stessi nel mondo: sono luoghi eterotopici.
In ultimo, per l’autore, il videogioco è simbolicamente un modo per recuperare l’ “aura” all’opera d’arte sotto forma di coolness (il gioco e il videogioco sono dei “miti”, e mostrano una “lontananza” una superiore potenza della tecnica che si esplicita) ed è una sorta di tarantismo digitale. Nel videogioco, come nel rito del possedimento delle tarantolate, sono presenti dei combattimenti che simbolicamente rappresentano il conflitto fra singolo e collettività. Il videogioco sarebbe una danza liberatoria delle dita, ove il collettivo che “morde” è tenuto a bada dalla danza stessa. Il singolo ritorce il collettivo contro se stesso e lo rende ineffettivo. Si identifica con esso (uno strumento omeopatico) e al contempo cerca un luogo di identificazione singolare che si opponga alla collettività.
Nel testo di Frazzetto accanto ai vg/IDHE sono investigate molte condizioni estetiche che qui non si è potuto menzionare (dal parkour, alla moda, ai geek/mob, all’arte contemporanea). Il libro è complesso e denso, con una natura non meno ibrida delle caratteristiche del nuovo mondo estetico che l’autore individua. Si tratta di un testo di filosofia e di estetica anzitutto, in cui i videogiochi sono una variabile fra molte che descrive una tesi generale. In questo è da riscontrarsi il suo ruolo aurorale (almeno in Italia) e la sua innovatività. In quanto tale va letto: certamente estraneo, e a volte confliggente e dialettico o volutamente provocatorio, rispetto ai game studies, può essere uno sprone e un viatico per filosofi, estetologi e storici dell’arte per affrontare un nuovo oggetto senza pregiudizi e rendendolo organico ad una riflessione estetica composita e generale.

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Categoria: 1/2012 Books, 1/2012 Critical Notes | Tags: Federico Giordano

Elisa Mandelli e Valentina Re (a cura di), Fate il Vostro Gioco, Terra Ferma, 2011

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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“Fate il vostro gioco”: un’esortazione – ma, soprattutto, una possibilità – che ci pare possa descrivere molto bene lo scenario mediale in cui questo volume cerca di collocare il rapporto tra cinema e videogame.
Realizzato in occasione della giornata di studi I Play Videogame organizzata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia nel novembre del 2010, questo libro si propone di investigare le relazioni tra cinema e videogiochi all’interno del panorama mediatico contemporaneo. La raccolta di saggi, curata da Valentina Re ed Elisa Mandelli, amplia tuttavia ulteriormente il nucleo della ricerca, a partire della convergence culture di Henry Jenkins 22, per sviluppare percorsi alternativi attraverso le nuove forme (documetary games) e le nuove pratiche (mash-up, machinima, hacking) del videogioco. Così il lavoro supera gli intenti prefissi ed esplora le diverse declinazioni del medium videoludico – attraverso il cinema, oltre il cinema – all’interno di un più ampio panorama mediale contemporaneo. I modelli della rete e del web 2.0 sono adottati come paradigma di costruzione, decostruzione e, soprattutto, rielaborazione (una “manipolazione”, come suggerito in indice) dei contenuti mediali. La raccolta, divisa in tre sezioni intitolate ibridazioni, interferenze e manipolazioni, accoglie dieci saggi all’interno dei quali vengono analizzate l’intermedialità e l’intertestualità, ma anche temi quali la gamification e l’innesto di meccaniche videoludiche che contribuiscono all’evoluzione dei media preesistenti. Il web 2.0 diviene metafora di uno slittamento delle dinamiche di produzione culturale da un modello di tipo top-down ad uno bottom-up, determinato da un processo di riappropriazione del medium avvenuto con lo sviluppo di nuove pratiche partecipative. Queste ultime, nella lettura proposta dagli autori, assumono dunque un carattere a tratti sovversivo, che ribalta il modello industriale classico e lo innova investendo l’utente – non più consumer ma pro-sumer – di un rinnovato ruolo creativo.

Il saggio di Ruggero Eugeni Prima persona – Le trasformazioni dell’inquadratura soggettiva tra cinema, media e videogioco apre la raccolta. Al suo interno, l’autore ripercorre il processo di contaminazione linguistica tra cinema e videogiochi delineando i confini estetici e funzionali del first person shot e del point of view shot. L’ibridazione tra i linguaggi dei nuovi media è oggetto di studio anche per Federico Zecca. In Videogame goes to the movie – La traduzione cinematografica del videogioco Zecca sviluppa, a partire dalla semiologia classica, una teoria della traduzione intermediale basata su un modello target oriented e su constrains sistemici. All’interno del suo esteso contributo, l’autore elabora una tassonomia della traduzione intersemiotica incentrata su tre funzioni (ripetizione, trasformazione, manipolazione) giungendo infine ad analizzare nello specifico due tipologie di relazioni intertestuali: la citazione e l’allusione. Mirabilia/Digitabilia – Spazi della visione, meraviglie interattive è il titolo del saggio di Federico Giordano e Marco Benoît Carbone, i quali inseriscono il dibattito videoludico in un contesto più ampio rispetto agli studi sincronici sulle contaminazioni intermediali. Essi propongono una prospettiva diacronica all’interno della quale il videogioco è letto come “mirabilia”, erede della funzione spettacolare svolta storicamente dalla pittura, e come parte fondamentale della dimensione del “digitabilia”, che sintetizza l’esplosione dell’estetica e dell’iconografia del digitale all’interno della società contemporanea.

Patrick Coppock, Valentina Re e Elisa Mendelli, nei loro interventi tracciano un excursus sulle incursioni videoludiche oltre la soglia del “cerchio magico” di Huizinga 23. In Transmedialità e convergenze tra forme di narrazione, nella letteratura, nel cinema e nei giochi digitali viene definito il rapporto tra storytelling e storymaking, fino a rielaborare la definizione jenkinsiana di transmedia storytelling su nuove forme ludiche per il web. La stratificazione della diegesi nella teoria narratologica genettiana è alla base della riflessione sulla figura della metalessi sviluppata all’interno del contributo Cinema, videogame e livelli di realtà: giocare sul limite, che procede con un interessante digressione sulla presenza di molteplici livelli narrativi in film quali eXistenZ 24 e Tron 25. Non di fiction ma di documentario – si perdoni la distinzione, in questo caso, al limite del semplicistico dettata dallo spazio tiranno – e di playful re-enactment si occupa l’ultimo articolo di questa sezione intitolato La realtà in gioco: il documentario tra cinema, videogame e nuovi media, costruito attraverso un’accurata analisi dei documentary game e web-documentary.
Dal gioco all’uso: machinima e dintorni, Machine Animation – Videogiochi e machinima nell’arte contemporanea, L’hacking tra gioco, suggestione cinematografica e Do It Yourself e Uh oh… There’s a film, book, game on my Pad compongono l’ultima sezione della raccolta, intitolata Manipolazioni. Al suo interno viene effettua una ricognizione sulle nuove pratiche e sui sistemi di fruizione associati al videogioco: il machinima, il videogioco che imita il cinema appropriandosi del suo linguaggio e coinvolgendo l’utente finale in una sfida imitativa che pone al centro l’esibizione della performance creativa dell’utente stesso; il videogioco come momento riflessione e sperimentazione ripercorsa attraverso le opere di artisti quali Miltos Manetas e Eddo Stern; infine il videogioco come luogo di trasformazioni sociali in pratiche quali l’hacking, nuova incarnazione del Do It Yourself. Il concetto di “rimediazione” proposto da Bolter e Grusin 26 viene così rielaborato e aggiornato. Passando attraverso il mash-up e le desing-driven innovation come frontiere dell’ibridazione tra linguaggi e piattaforme mediali di ultima generazione, il volume ripercorre le numerose tappe del dibattito – ancora in corso – sui rapporti tra nuovi e vecchi media, approfondendo l’indagine sui processi di contaminazione tra nuove forme tecnologiche e codici espressivi preesistenti, i quali vengono adatti e rinnovati per poter essere trasportati su nuove piattaforme e veicolarne i contenuti – come sempre avviene – in modo riconoscibile ma, allo stesso tempo, innovativo.

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Categoria: 1/2012 Books, 1/2012 Critical Notes | Tags: Ivan Girina

Phone Story. Un mobile game discute la mobile phone industry

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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Il 13 settembre 2011, Apple ha rimosso il videogioco Phone Story 27 dal suo App Store dopo solo quattro giorni dalla pubblicazione perché, spiega il comunicato ufficiale, mostrava violenza su bambini e contenuti discutibili 28. Poco dopo, il gioco è stato convertito per Android e ospitato nel Market 29 di Google. Nei giorni seguenti, questa notizia ha attratto l’attenzione di blog e giornali – la maggior parte dei quali, però, si è concentrata sulla decisione di Apple (è stata censura?) mentre pochi hanno analizzato Phone Story e i suoi meccanismi videoludici e satirici.
Paolo Pedercini, principale autore di Phone Story e docente alla Carnegie Mellon University, è l’anima del sito web Molleindustria 30 che ospita progetti indipendenti di game design per la critica sociale e politica. Già in passato, Pedercini aveva prodotto diversi giochi controversi ed è un personaggio di primo piano nel panorama del game design satirico d’autore. Molleindustria ha realizzato Phone Story in collaborazione con Yes Lab 31, uno spazio per la progettazione di azioni mediatiche creative ospitato dal Hemispheric Institute della New York University e gestito da Yes Men 32 – una rete di mediattivisti organizzata da Jacques Servin e Igor Vamos. Alcune delle azioni di protesta che si sono tenute a New York per Occupy Wall Street 33 sono state ideate e coordinate da Yes Men e Yes Lab.

Phone Story: gameplay
Il giocatore è accompagnato durante una partita a Phone Story da una voce sintetica che si rivolge direttamente a lui. Le sue prime frasi sono particolarmente interessanti: “Hello consumer, thank you for joining us. Let me tell you the story of this phone, while I provide you with quality entertainment”. Si chiarisce subito, quindi, che Phone Story proporrà una doppia esperienza: il sistema racconterà al giocatore la storia del suo telefono e, intanto, fornirà un intrattenimento di qualità con quattro mini-giochi.
Prima parte. Coltan

(. . .) Coltan is found in most electronic devices. The majority of Coltan’s world supplies is located in the Democratic Republic of Congo, a country torn by a brutal civil war. The increasing demand of Coltan produced a wave of violence and massacre in the Congo. Military groups enslave prisoners of war, often children, to mine the precious material. Directly or not, we are all involved in this complex, illegal traffic (Phone Story, voce narrante, livello 1).

Il primo livello rappresenta una miniera, alcuni schiavi bambini e due guardie che sorvegliano il loro lavoro. L’obiettivo è estrarre Coltan senza interruzioni, il giocatore deve spostare le guardie davanti agli schiavi che piangono e smettono di lavorare.
Seconda parte. Suicidi

Like most electronic gadget, this phone was assembled in China, inside a factory as big as a city. The people [work there] in inhuman conditions and are forced into illegal overtime. Over the span of a few months, more than 30 worked committed suicide out of extreme desperation. We addressed this issue by installing suicide-prevention nets (Phone Story, voce narrante, livello 2).

Il secondo mini-gioco mostra una fabbrica, alcuni operai che vorrebbero suicidarsi lanciandosi dall’edificio e altri che spostano un telone elastico per salvarli. Il giocatore deve controllare il movimento della rete di salvataggio per impedire la morte dei suicidi.
Terza parte. Marketing

Then, you purchased this phone. It was new and sexy. You waited for it for months, no evidence of its troubling past was visible. Did you really need it? Of course you did! We invested a lot of money to instill this desire in you (Phone Story, voce narrante, livello 3).

Il terzo livello mette in scena l’ingresso di un negozio di elettronica, un personaggio appena fuori dalla porta e molti altri consumatori che corrono verso le vetrine. Il giocatore controlla il commesso e deve lanciare dei cellulari ai consumatori prima che arrivino a sbattere contro le pareti del negozio.
Quarta parte. Rifiuti

Soon, we’ll introduce a new model that will make this one look antiquated and you will discard it. It will join tons of highly toxic electronic waste. They say they will recycle it, but it will probably be shipped abroad (. . .). There, its material will be salvaged using methods that are harmful both to human health and the environment (Phone Story, voce narrante, livello 4).

Il livello conclusivo mostra un nastro trasportatore, circondato da quattro lavoratori vestiti di stracci, su cui appaiono diversi rifiuti. Il giocatore deve trascinare ciascun materiale – plastica, metallo, componenti elettronici – verso il lavoratore corrispondente.
I quattro mini-giochi sono disposti in una sequenza che termina con la frase “And the cycle continues…” pronunciata dalla voce di sottofondo. Dopo una breve cutscene, la parodia di un prodotto Apple (iThing beta), il giocatore può ripeterli con una difficoltà crescente.

Phone Story, Phone Game, o entrambi?
L’analisi di Phone Story deve ripartire dalla prima frase pronunciata in sottofondo: “Let me tell you the story of this phone, while I provide you with quality entertainment”. La parte ludica è presente – anzi, sarà di qualità – ma anche la storia del telefono è importante e per capire Phone Story bisogna descrivere come si intrecciano le due componenti.
Voce narrante
“Let me tell you the story of this phone”: chi pronuncia questa frase? A chi si rivolge e a cosa di riferisce? Le possibilità, volutamente ambigue, creano molti degli effetti di straniamento destinati al giocatore. L’utente empirico, in carne e ossa, è scelto come destinatario esplicito. La voce narrante sottolinea che si parla proprio del telefono del giocatore, proprio quello che si sta usando per giocare. Invece, la fonte della voce in sottofondo è più ambigua. Si tratta di un narratore generico messo in scena nel gioco o quella voce finge di provenire dal brand Apple, oppure di qualunque altra marca? In effetti, la sua posizione nel corso del testo varia e passa dall’oggettività (“Like most electronic gadget, this phone was assembled in China”), all’includere il giocatore (“we are all involved in this complex, illegal traffic”) fino a sovrapporsi col brand (“We invested a lot of money to instill this desire in you”).
In questa ambiguità, si ritrova una cifra stilistica di Yes Men e del subvertising. La pratica della identity correction consiste nell’individuare una persona o un’azienda da criticare e impersonarla pubblicamente in modo distorto – o in modo più realistico, direbbero gli attivisti. Nel corso degli anni, gli Yes Men l’hanno spesso messa in atto concedendo interviste sotto mentite spoglie e pronunciando discorsi in cui i personaggi da loro interpretati si auto-accusavano di ogni nefandezza.
In sintesi, la voce narrante di Phone Story tenta quindi una forma di identity correction 34, sovrapponendosi al discorso di brand della Apple e sovvertendone i contenuti.

Azioni di gioco
Sembra che la funzione dei mini-giochi che compongono Phone Story sia di illustrare ciò che è raccontato in sottofondo. In effetti, il design è fin troppo asciutto, semplificato e offre una sfida minima all’utente: una volta capiti i comandi fondamentali e l’azione necessaria per superare il livello, Phone Story crea ben pochi problemi ai giocatori. Le parti ludiche ricoprono però, nella loro scarna essenzialità, una funzione importante per la retorica di questo gioco perché costringono l’utente a interpretare il ruolo delle grandi aziende criticate da Molleindustria e Yes Men. Non sono solo le multinazionali a sfruttare il lavoro minorile in Congo ma, nel suo piccolo, lo è anche il giocatore. Per due motivi: uno, interno al gioco, è che è lui a spostare le guardie armate davanti a bambini schiavi; l’altro, esterno, è che ha comprato uno smartphone.
Già McDondald’s Video Game 35, altro celebre videogioco di Molleindustria, utilizzava un espediente simile 36 ma con una strategia retorica lievemente diversa. Lì, il gioco simulava una multinazionale del fast food e, per vincere, servivano azioni controverse – per esempio, deforestare l’Amazzonia o corrompere dei nutrizionisti. L’argomentazione di McDondald’s Video Game procede in questo modo: se McDondald’s prospera – e non c’è dubbio che nel mondo reale lo faccia – questo può avvenire solo grazie a politiche di dubbia legalità come quelle che il giocatore ha sperimentato. Tuttavia, la retorica del gioco funziona lo stesso anche se un utente di The McDondald’s Video Game non è anche un cliente dei fast food.
Invece, la strategia persuasiva di Phone Story è più intima: il gioco non racconta solo le malefatte dei grandi brand dell’elettronica ma spinge il giocatore a ripeterle in una simulazione messa in scena proprio su uno smartphone, proprio uno di quei prodotti criticati dal gioco. Così, le componenti ludiche servono da ponte tra una situazione macro (Apple e le sue scelte sociali, economiche e politiche) e una pratica micro (il giocatore, i suoi valori consumistici e il suo smartphone).
Verso un Platform-Specific Satirical Game
Per quanto riguarda il gameplay, Phone Story è senza dubbio meno complesso di altri titoli. Rispetto ad altri giochi di Molleindustria – per esempio McDondald’s Video Game o Oiligarchy 37 – non permette al giocatore di esplorare la simulazione ed è più lineare, più esplicito nella sua critica ad Apple e alle altre multinazionali dell’elettronica. D’altra parte, la strategia retorica di Phone Story è una forte innovazione nel campo dei Satirical game, Game for change e Serious game. A differenza di altri, questo gioco integra nel proprio discorso la sua piattaforma tecnologica e la situazione in cui viene giocato. È pensato per aver senso per un giocatore che ha acquistato uno smartphone e che lo sta utilizzando per giocare a Phone Story. Non è infatti un caso che, dopo la rimozione dall’App Store, Molleindustria lo ha riconvertito per telefoni Android e non ne ha prodotto una versione Flash per computer. In questo senso, potrebbe essere uno dei primissimi Platform-Specific satirical game: una forma sperimentale, quindi, con ancora molti elementi di game design da smussare ma con grandi potenzialità per il futuro.

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Categoria: 1/2012 Critical Notes, 1/2012 Games | Tags: Gabriele Ferri

Gioco e Tecnologia. Elementi chiave per una nuova pedagogia museale

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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La possibilità di trasmettere conoscenze risulta negli ultimi anni a pieno titolo svolta da luoghi di didattica informale quali i musei della scienza o le ludoteche tecnologico-scientifiche. Gli spazi museali, da luoghi visitati esclusivamente durante le gite scolastiche, in orario scolastico, a supporto di una didattica tradizionale, sono oggi visitati in una buona percentuale nei week-end da diverse tipologie di pubblico, tra cui spicca la fascia di pubblico giovane (8 – 14 anni) che viene liberamente al museo, non più solo in orario strettamente scolastico, ma anche nel proprio tempo libero, trascinando al proprio seguito anche la famiglia intera. In questi nuovi spazi di didattica, la cognizione diventa un elemento distribuito e interattivo e si caratterizza per essere molto più partecipativa e coinvolgente rispetto ai musei classici.
Volere capire diventa una scelta attuata liberamente e gioiosamente. La parola d’ordine risulta essere, infatti: sperimentare. Questo potrebbe essere lo slogan dei science center e con essi dei musei pensati (davvero) per i bambini, dove la scoperta si fonde con il gioco. Addio teche polverose, perché la conoscenza deve essere divertente. E lo diventa, specialmente nei musei per bambini, solo se il piccolo visitatore è libero di esplorare ed esaudire la sua curiosità.  Se l’idea di una visita canonica al museo fa pensare normalmente a lunghi giri obbligati tra sale immense in cui camminare in religioso (e noioso) silenzio, per fortuna, negli ultimi 10-15 anni, anche in Italia è arrivata la lezione dei cosiddetti Children’s Museums. Ed è avvenuta la svolta, l’apprendimento passa attraverso l’esperienza diretta. La possibilità di interagire con oggetti reali aiuta il bambino a imparare e stimola la sua curiosità senza annoiarlo. Da questa visione è nato il “metodo hands-on”, letteralmente mani sopra, comune agli spazi nati per i più piccoli.
Il gioco accompagna la scoperta e si trasforma in un momento di sperimentazione . E da qui, questa ricerca prende il via, in questo lavoro infatti verranno presentati alcuni elementi che hanno permesso lo strutturarsi di questo tipo di trasmissione del sapere, mostrando perché i ragazzi vogliono visitare questi spazi, proponendo alcune caratteristiche di quella che potremmo definire una “didattica interattiva”.

Gioco e apprendimento formale
Se si accetta l’idea che il gioco possa accompagnare la scoperta; conoscere in maniera divertente, all’interno di un museo, diventa una gioia e una soddisfazione senza limiti proprio perché lo si può fare in un contesto che promuove la dimensione non solo didattica ma anche quella ludica e partecipativa.
La progettazione delle attività interattive sviluppate in questi nuovi contesti museali punta a promuovere tre fasi di quello che potremmo definire un processo esperienziale e cognitivo:

  • senso-motoria, percettiva
  • emotiva, immersiva
  • razionale, cognitiva

La progettazione di esperienze interattive da svolgersi in contesti museali o ludici deve infatti tener conto della dimensione percettiva (i visitatori specialmente i ragazzi/bambini hanno bisogno di toccare e osservare, sentire), emotiva (immergersi in ambienti che con luci o suoni favoriscano la percezione di mondi da svelare) e cognitiva (occorre che in ogni sala, dalla mostra permanente ad ogni singola installazione o laboratorio, il contenuto sia fruito in maniera spontanea e  immediata, esplicitando i concetti in esperienze da vivere e da sperimentare personalmente). In questo tipo di game design si punta a ideare esperienze di partecipazione e coinvolgimento che rendano la visita stimolante e “magica”.
Perché però parlare di una nuova pedagogia museale per questi musei interattivi e ancora di più per queste ludoteche tecnologico-scientifiche? Perché crediamo che sia importante notare come i molti elementi di cambiamento promossi in questo tipo di spazi trasformino questi luoghi in nuovi contesti pedagogici, in cui:

  • sperimentare nuove pedagogie
  • creare stili didattici innovativi
  • avvicinare i docenti alle nuove tecnologie
  • sviluppare strumenti partecipativi di conoscenza
  • innescare dei processi di senso personali e collettivi

In questi luoghi, il visitatore interagendo – giocando con la tecnologia vive il suo percorso d’apprendimento in un ambiente che impara a far suo (sono moltissimi i casi di ragazzi e famiglie che ritornano a visitare anche la mostra permanete rivedendo e riscoprendo in uno stesso percorso cose sempre da approfondire in visite successive).
E in questi luoghi dinamici e coinvolgenti, la prospettiva pedagogica è ribaltata. Il visitatore non è considerato più un discente passivo, ignorante di ciò che va a vedere, per cui deve solo apprendere unidirezionalmente, ma è visto come un protagonista di senso, che co-costruisce le proprie conoscenze in libertà e auto-determinazione.
Si possono indicare gli elementi che hanno permesso questo ribaltamento di prospettiva e che ci permettono di definire meglio l’essenza di questa didattica interattiva. Innanzitutto è da considerarsi centrale l’ambiente in cui viene svolta la visita, che è da intendersi come uno spazio coinvolgente, interattivo e ludico; poi c’è il processo che viene proposto al visitatore; il visitatore infatti è invitato a  partecipare ad un percorso che è una continua sollecitazione percettiva – emotiva – cognitiva e ancora c’è il ruolo che al visitatore viene richiesto di ricoprire e che deve essere attivo, da costruttore di senso, da protagonista; infine c’è la modalità di apprendimento: partecipativa, collaborativa, esperienziale (come non citare l’immancabile learning by doing). Nei prossimi paragrafi, questi elementi verranno individuati in un caso studio, il museo-ludoteca tecnologica scientifica del Comune di Roma e verrà mostrato il legame tra la didattica interattiva e la progettazione user experience.

Interazione e gioco: una panoramica sulle attività svolte a Technotown
Natura e tecnologia: un binomio che trova la sua giusta realizzazione all’interno di Villa Torlonia, dove il Comune di Roma ha scelto di collocare Technotown, uno spazio dedicato alle nuove tecnologie e destinato ai ragazzi tra gli 8 e i 17 anni. Dal 2006 ad oggi, all’interno dei due piani del Villino Medioevale dentro Villa Torlonia, uno dei più visitati parchi di Roma, si trova Technotown, ludoteca-museo tecnologico-scientifico del Comune di Roma.
Le sale che compongo la mostra permanente hanno temi differenti, si va dalla sala del Virtual Set, con kroma key in blue screen, ai “Pavimenti Interattivi”, con telecamere e luce ad infrarossi, alle Avventure in 3D con motion capture e visione stereoscopica, allo Sbong, che richiama il gioco degli anni ’70 PONG, ma qui a muovere la pallina è direttamente il giocatore con i movimenti del proprio corpo.
Oltre alle sale permanenti, ecco inoltre di seguito un breve elenco di alcune attività realizzate negli ultimi 2 anni a Technotown, suddivise per aree:

  • Robotica: Io Robot (2007-2012); Futuroremoto (2009); Design e Robotica (2010); Robotica in Pediatria (2011-2012)- ideazione, progettazione e realizzazione di attività di robotica educativa, a cura di Manuela Carastro.
  • Media: Jobim– percorso laboratoriale di integrazione culturale con nuove tecnologie, a cura di Elisabetta Pizzochero; Sicuri sui social network, un es. di stop-motion – a cura di Michela Bamonte.
  • Interaction design – ideazione, progettazione e realizzazione di installazioni didattiche e ludiche: Utilizzo di SmartCamera NI 1762 e Lego NXT per una staffetta tra due musei con robot autonomi, controllati in locale e in remoto – a cura di Manuela Carastro, David Scaradozzi, Mauro Pace, Reactable – a cura di Dario di Gennaro e Massimo Sforzini; V-dance–a cura di Saverio Villirillo e Massimo Sforzini.

User Experience e didattica interattiva
Uno dei contesti di riferimento per la progettazione interattiva fin qui descritta è quello dell’user experience design (UX), in cui oltre a mettere al centro l’utente si progetta non più un prodotto o un servizio singolo ma viene progettata l’interazione in toto tra utente e ambiente rilanciando la centralità di aspetti emotivi, cognitivi e sociali dell’interazione stessa:
The term “user experience” is associated with a wide variety of meanings 38, ranging from traditional usability to beauty, hedonic, affective or experiential aspects of technology use. . . . UX is a consequence of a user’s internal state (predispositions, expectations, needs, motivation, mood, etc.), the characteristics of the designed system (e.g. complexity, purpose, usability, functionality, etc.) and the context (or the environment) within which the interaction occurs (e.g. organisational/social setting, meaningfulness of the activity, voluntariness of use, etc.) 39.
 
La tensione è creare esperienze di qualità, piuttosto che tecnologie usabili puntando alla partecipazione e coinvolgimento dell’utente finale nella sua totalità, spostando il focus dalla funzionalità all’esperienzialità ed emotività (Figura 1).

Figura 1 – Elementi caratterizzanti la progettazione User Experience Design secondo Hassenzahl & Tractinsky.

In questo quadro di riferimento, la didattica interattiva ha il compito di ideare più che tecnologie o strumenti didattici, delle vere e proprie esperienze cognitive che abbiano come obiettivi centrali aspetti quali la soddisfazione, la gioia, la relazionalità, l’emotività e l’interattività del visitatore.

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Categoria: 1/2012 Critical Notes, 1/2012 Miscellanea | Tags: Manuela Carastro

Getglue e Miso. La gamification contagia il consumo televisivo

Posted on 20 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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Lo spettatore da tempo non dorme più sonni tranquilli sul divano. La figura del couch potato è oramai un lontano ricordo, e negli anni al pubblico televisivo è stato chiesto di partecipare attivamente alle trasmissioni in modi diversi: attraverso il televoto, le telefonate e i giochi in studio, i sondaggi via sms, i forum dei fan, l’invio di contenuti autoprodotti. E gli utenti hanno sempre risposto, a dimostrare l’affezione che li lega indissolubilmente a questo medium.
Perciò, nell’era della social economy, non potevano mancare applicazioni dedicate al mondo della tv. A partire dal 2008 sono nate piattaforme di social networking tematiche dedicate ai fan di film, serie e format televisivi. Diverse società hanno investito nel campo della social tv, ma al momento due sono riuscite ad emergere e a catturare l’interesse dei telespettatori: Getglue e Miso.
Getglue, nata grazie ai fondi di Union Square Ventures, RRE Ventures, Rho Ventures e Time Warner, è stata l’applicazione che ha inaugurato questo trend e ad oggi conta più di due milioni di utenti attivi, con cento milioni di check-in registrati nel 2011. Ha rapporti consolidati con i principali network televisivi e major cinematografiche, che utilizzano l’applicazione per promuovere i propri contenuti di punta. Miso è invece una creatura finanziata da Google Ventures, Khosla VentureseHearst Interactive Media; non ha raggiunto ancora gli stessi numeri, ma considerando le partnership che ha appena chiuso con Fox, AT&T e U-verse, non ci vorrà troppo tempo.
Ma come funzionano queste applicazioni? L’obiettivo è quello di intrattenere l’utente e alimentare la discussione intorno ai contenuti televisivi. Il meccanismo che viene adottato è quello del già noto check-in, mutuato dalla celebre applicazione Foursquare: un utente registrato accede all’applicazione, tramite PC o altro dispositivo mobile come smartphone e tablet, e può, scegliendo da un ampio database di titoli sponsorizzati, comunicare ai propri amici con un semplice click cosa sta guardando in quel momento, eventualmente lasciando una recensione o commento per gli spettatori futuri. La registrazione può essere effettuata attraverso l’account Facebook o Twitter, in modo da poter condividere le proprie preferenze di visione anche al di fuori della piattaforma. Inoltre le applicazioni mettono a disposizione un plug-in per i browser, una speciale barra che consente all’interno di alcuni siti – ad esempio quello dell’Imdb, Internet Movie Database – di esprimere le proprie preferenze mentre si naviga. Ci si può connettere ad altri utenti in base agli interessi di visione, ricevere suggerimenti su cosa vedere, seguire gli aggiornamenti e commenti di una persona o un programma.
Fino a qui, nulla di apparentemente nuovo all’orizzonte. Ci troviamo di fronte ad una evoluzione dei fan forum in modalità network. D’altra parte che la TV e i film fossero sempre più social oriented era palese: basti pensare agli archivi personalizzati di Mubi o alle finestre interattive di Tv plus. C’è un chiaro ritorno ad una visione collettiva e condivisa dei contenuti televisivi, anche se virtuale. Quello che è interessante però è che alla oramai onnipresente logica social è stata aggiunta una componente ludica.
Ad ogni check-in l’utente guadagna dei punti, che gli permettono di conquistare dei badge di riconoscimento. I punti totalizzati attraverso check-in, commenti e azioni speciali possono essere spesi per avere omaggi, premi, coupon, gadget delle trasmissioni. Ad esempio, con il badge della sitcom animata Bob’s Burgers 40, a chi ha fatto check-in su Getglue la sera del debutto televisivo, è stato regalato un badge-buono omaggio per la catena Fatburger.
Non sempre è chiaro come si possano sbloccare alcuni badge, spesso i più esclusivi richiedono un lavoro di ricerca e studio da parte dell’utente. Alcuni possono essere sbloccati solo con check-in in un giorno specifico in un tempo specifico e non sono più disponibili al di fuori di una data finestra temporale. Non ci sono solamente badge standard, da ottenere in base alla frequenza e alla modalità di interazione, ma anche badge speciali disegnati appositamente per film e programmi, nel caso ci sia una jointventure tra le piattaforme e i broadcaster. Ad esempio, per il lancio di Boardwalk Empire 41, Getglue ha realizzato per HBO dodici badge per dodici puntate, ottenibili facendo check-in durante la diretta tv. Solamente se in possesso dell’intera collezione, era possibile ottenere un badge speciale di Steve Buscemi. Per chi non ama la serie, la raccolta è solamente un incentivo alla sfida. Ma per un vero fan, avere questa collezione esclusiva è un’attestazione della propria identità di consumo televisivo.
Ci troviamo di fronte ad un’evoluzione della raccolta di figurine, alla stessa pulsione ludica che spinge a completare un album, a raccogliere le immagini del cartone preferito o le foto dei calciatori del campionato: si cerca di tenere memoria di un immaginario al quale si è particolarmente affezionati. Come sostiene Walter Benjamin, collezionare “è un’arte di vivere legata a un gioco di memoria e ossessione” 42.
Getglue da questo punto di vista si spinge più avanti: raggiunto il numero di venti badge, l’utente può ricevere direttamente a casa i trofei in formato adesivo. Si innesca così una logica di collezionismo e feticismo molto più potente della semplice archiviazione digitale. Le azioni compiute diventano tangibili, i badge abbandonano i confini virtuali dell’applicazione per guadagnare visibilità negli spazi offline.
Si potrebbe avanzare la critica che la gamification non possa consistere solamente in una forma di premiazione tramite punti e distintivi, ma debba implementare anche altri elementi, come il rischio e le difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi, la possibilità di perdere, le classifiche. Sicuramente si tratta di una forma leggera di gamification, ma si possono comunque individuare, in entrambe le piattaforme, chiare motivazioni ludiche:

  • la necessità di affermarsi, di conquistare punti e badge per dimostrare di essere il migliore, il fan più fedele;
  • il raggiungimento di obiettivi per ricevere premi;
  • la sfida a scoprire combinazioni e modi per ottenere i badge e i regali più esclusivi, da esibire come trofeo;
  • il gusto di collezionare.

Inoltre la stessa logica di share è già da sé un elemento tipico del gioco, nel momento in cui la visibilità sui social network viene utilizzata per mostrare i badge ottenuti.
Come scrive Roger Callois ne I giochi e gli uomini “generalmente i giochi trovano la pienezza del loro significato solo nel momento in cui suscitano una rispondenza complice. Anche quando, in linea di principio, i giocatori potrebbero tranquillamente dedicarvisi per conto proprio, i giochi diventano ben presto pretesti per gare e spettacolo” 43. Le piattaforme stanno comunque evolvendo in un’ottica sempre più ludica. Miso ad esempio ha introdotto da poco la modalità slideshow: si tratta di una esperienza interattiva sincronizzata al contenuto televisivo. Durante la visione, sullo schermo secondario dell’utente (pc, tablet o cellulare) compaiono delle attività da completare: trivia, sondaggi, citazioni divertenti dei personaggi. L’utente guarda, condivide, gioca, tutto rimanendo comodamente seduto in poltrona. Getglue invece ha esteso la logica dei check-in anche a musica e libri, e nella sezione profilo ha introdotto statistiche sulla partecipazione degli amici, per rafforzare l’elemento di confronto e sfida.
Viene sicuramente da chiedersi quanto questi social network siano una risposta ad una reale esigenza dei fan e quanto siano invece un tentativo dei grandi broadcaster di monitorare e quantificare il consumo parallelo dei contenuti on line, al di fuori dei canali “ufficialmente riconosciuti” come Hulu e Netflix. A partire dal 2008, il sistema classico di monitoraggio degli ascolti e di raccolta pubblicitaria è andato in crisi a causa della crescente fruizione di contenuti su web, on demand e il fenomeno sommerso del peer to peer, obbligando le major del video a trovare sistemi alternativi per raccogliere informazioni utili a rendere una serie o un programma tv commercialmente rilevante. I profili e i comportamenti degli utenti sono diventati la merce di scambio più preziosa per gli inserzionisti, il successo di una trasmissione viene valutato in base all’attività social e ai sentimenti positivi generati (basti vedere i sistemi di misurazione di trendrr.tv). Questo scopo sembra tanto più evidente se si pensa che le nuove versioni delle piattaforme automatizzeranno il processo di check-in, saranno i dispositivi ad allinearsi automaticamente a ciò che sta andando in onda, e conseguentemente sarà possibile l’invio di pubblicità in sovraimpressione su misura.
La partecipazione che però tali strumenti sono in grado di garantire è sicuramente interessante. Gli utenti sembrano gradire queste applicazioni, divertenti, semplici da usare e dalla grafica accattivante. Si calcola che nella fascia serale, negli Usa il 20% dei post su Facebook e Twitter di argomento televisivo provengano da Getglue e Miso. Getglue raggiunge una media di un check-in al secondo. Non si tratta ancora di numeri massivi, ma i trend di crescita di adozione di tali applicazioni sono incredibili. Si parla di un aumento degli accessi giornalieri del 1000%. È difficile ipotizzare quale sarà il futuro di tali applicazioni, se i broadcaster continueranno a investire quando tutte le televisioni saranno connesse ad internet. Per il momento sono la soluzione perfetta per utenti e investitori. Guardare la tv non è mai stato così divertente.

– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –

Categoria: 1/2012 Critical Notes, 1/2012 Miscellanea | Tags: Simona Biancalana

ALL OF US, PLAYERS

Posted on 13 Marzo 2012 by Gabriele Ferri
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[ENG] Pathways in the diffusion of digital gaming: relocations, pervasiveness, gamification

For its first issue, G|A|M|E proposes an inquiry into the diffusion of the videogame medium outside of its established contexts: a phenomenon that leads us to reconsider the object of our research as part of a wider media ecology.

Transformations in interface design make it difficult to map the boundaries of video gaming as a field, and, with the spread of aludic paradigm, many other products are being turned into games.

From the logic of gamification to geo-localization, and from mobile applications to the ludic sociability of Farmville, we are witnessing videogames’ invasion of the spaces and temporalities of everyday life.

We are inviting scholars from a variety of backgrounds and disciplines to tackle this subject, focusing on the issues specific to this new challenge in the field of game studies.

Key questions and issues:

Today, the videogame medium is targeting user-friendliness and accessibility through interface design. How do such interfaces encourage traditionally non-gaming audiences to approach and engage with the medium? Who are today’s gamers, and how do they behave as media users? What kind of innovations have emerged from the interfaces of the new generation of consoles and gaming-oriented smart phones (Move, Kinect, Wii Mote, accelerometers, etc.)?

In which ways have these interfaces affected existing gaming practices? Is it possible to trace a genealogy of human-computer interfaces, or do the latest rounds of innovation represent a fundamental break, allowing for an entirely novel set of experiences? Can one find examples of strategies in videogame design that explicitly aim to transcend the previous norms and boundaries of the gaming experience? Is it possible to analyse these strategies? If so, how?

The videogame medium is enmeshed in wider processes of the relocation, mobilisation, and dematerialization of technological devices. The use of mobile machines and the obsolescence of material supports could lead to a rethink of textualization in and of games. Are we in need of new and specific media-theoretical tools? Can we draw analogies between these shifts in videogames and recent changes to the structure, framing, and re-locationof movies and audio-visual media?

Between videogames and other media, we seem to be witnessing an emerging on new, hybrid cultural forms. How successful are these hybrid mediums at extending extant gaming practices beyond their traditional contexts? What kinds of developments and projects are staking a claim on this media space, and on what platforms and devices (interactive films for the iPhone, alternate reality games, applications available through leading companies’ e-stores, etc.)? Within the new genres and styles enabled by these hybrid media, can we find any evidence of the long arm of gamification? What are the consequences of these processes on social practices? In what ways did videogames influence other media by leading them to a reconfiguration of their own strategies and processes? What kind of gaming practices have migrated to the broader context of new media, and what influence did they exert on social interaction?

With the productive and distributive strategies of the videogame industry undergoing profound transformation, alongside sudden changes in the discourses and social practices of the medium, academics and commentators should question their existing methodological choices – particularly in their approach to history. Is it possible to conceive of a historical approach to the study of videogames, balancing the field’s technological focus with a conscious examination of aesthetic and social concerns? Can we identify specific events or conditions in videogame history which anticipated the expansion of this gaming paradigm into other fields of culture?

Social discourses on video games are changing rapidly. The industry promotes a casual and easy-going image of gaming and gamers. The initial scepticism towards video games expressed in the past by columnists, commentators and intellectuals appears to be fading in strength and importance. What is the status of videogames in today’s social discourse? Is the medium moved beyond the margins of culture, and, if so, how can we hope to evaluate its relevance in a contemporary context?

Not only have videogames transcended their role as part of a distinct subculture, but they are exhibiting a profound influence over the form and content of all other media. Non-gaming interfaces are becoming increasingly game-like, social life on the Internet is adopting competitive models, and marketing is ever-more dependant on gaming dynamics. How are videogames changing the marketing, advertising and production models of the entertainment industry? Are there specific examples that might provide subjects for investigation and analysis? Can we see any particular features of videogame and media production which are acting as conduits for the spread of gamification?

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[ITA] Percorsi nella diffusione del gioco digitale: ricollocazioni, pervasività, gamification

Con la sua prima uscita, G|A|M|E propone una riflessione sulla diffusione del videogioco al di fuori degli spazi e dei contesti a cui è tradizionalmente associato. Una ricollocazione che ci invita a riconsiderare l’oggetto del nostro studio, ponendolo all’interno di una più ampia ecologia mediale.

Non solo il radicale mutare delle interfacce rende più complesso fotografare il panorama videoludico, ma la dispersione di un paradigma ludico trasforma in gioco ciò che prima non lo era. Dalla gamification della geolocalizzazione e di altre applicazioni mobile alla socialità ludica di Farmville, assistiamo a una progressiva invasione da parte del videogioco dei luoghi e dei tempi della vita quotidiana.

G|A|M|E invita studiosi provenienti da diversi ambiti di ricerca a misurare i propri strumenti con questo processo, con le sue peculiarità e con le sfide che questo pone all’ambito dei game studies.

Ecco alcune della questioni che ci si vuole porre e delle domande cui si vuole rispondere:

Tramite l’adozione di nuove interfacce il videogioco punta oggi a una inedita user-friendliness. In che modo questi cambiamenti favoriscono l’avvicinamento al medium di fasce di popolazione tradizionalmente escluse dalle gilde dei gamer? Chi sono e come si comportano gli utenti dei videogame oggi? Quali sono le novità apportate dalle interfacce delle console di ultima generazione e degli smartphone votati all’uso ludico (Move, Kinect, Wiimote, gli accelerometri, ecc.)? Quali sono gli usi peculiari dei videogiochi che si sono modificati con esse?

In che modo le nuove interfacce hanno contribuito ad ampliare il novero dei potenziali fruitori di videogiochi? In che modo hanno modificato le pratiche di gioco? È possibile costituire una genealogia di tali strumentazioni e dei modi di relazione tra uomo e macchina videoludica, o bisogna considerarle delle novità assolute degli ultimi anni? Infine, è possibile individuare in qualche videogioco specifico una strategia testuale che metta in campo esplicitamente questo ampliamento dei confini ludici? È possibile analizzare nel dettaglio tale strategia?

Il videogame è coinvolto in processi di dislocazione, mobilizzazione e smaterializzazione. L’utilizzo di dispositivi mobili e la progressiva obsolescenza del supporto fisico devono portarci a riconsiderare la testualità del videogioco. Quali strumenti di ricerca possono essere ipotizzati? Quali affinità si possono riscontrare con il processo di rilocazione che sta attraversando il film?

Esistono delle specifiche configurazioni ibride fra videogioco e altri prodotti mediali che hanno portato la logica del gaming fuori dal contesto che gli è più proprio? Quali sono le produzioni per dispositivi specifici che si richiamano a questo contesto (ad esempio film ludici interattivi per iPhone o altrismartphone, o applicazioni disponibili negli store online dei grandi operatori di settore)? Si può individuare un nuovo “genere” o “stile” riconoscibile di videogiochi e prodotti affini che si richiamano alla gamification?

Quali pratiche sociali possono considerarsi parte dellagamification? In che modo i meia hanno assunto forme e strategie del gioco per riconfigurare i propri processi comunicativi? Quali elementi della pratica ludica hanno seguito un percorso di migrazione nel più ampio contesto dei nuovi media? E quali sono le ricadute di questo processo nelle pratiche sociali?

Di fronte alla mutazione delle strategie produttive e distributive, dei percorsi di utilizzo e delle pratiche discorsive legate al videogioco, la storiografia deve interrogarsi sui propri strumenti. È possibile pensare a una prospettiva storiografica che tenga conto di istanze estetiche e sociali, superando un paradigma eminentemente tecnologico? Si possono individuare eventi o particolari condizioni nella storia del videogioco che abbiano anticipato il contesto di espansione ludica presso altri campi culturali?

I discorsi sociali sul videogioco sono in rapido mutamento; da un lato l’industria promuove una versione casual e rassicurante del giocatore, dall’altro la diffidenza della pubblicistica e di alcuni commentatori sembra svanire progressivamente. Qual è oggi la collocazione del videogioco nei discorsi collettivi? Come valutare l’incidenza del medium nella società civile?

Non solo il videogioco è uscito dalle sale giochi e dai salotti, ma ha influenzato significativamente il lavoro di chi produce contenuti mediali. Le interfacce diventano ludiche, la socialità in rete adotta modelli competitivi, la promozione è sempre più spesso legata a dinamiche di gioco. Dove rintracciare i segnali della ludicizzazione dell’ambiente mediale? Le strategie di marketing, promozione e produzione delle aziende dell’entertainment in che cosa sono state influenzate da questo contesto? Esistono dei casi specifici che possono essere studiati e illustrati? Quali contenuti delle produzioni videoludiche e mediali si prendono carico della gamification?

Categoria: CFP, GAME - n. 1/2012 | Tags: Editorial Board
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